Interviste impossibili 2

MARCO RAVENNA DIALOGA CON MICHELANGELO BUONARROTI


Una stanza senza tempo. L’aria odora di pietra umida e pigmento. Due figure si fronteggiano: Michelangelo, tra martelli e scalpelli; Marco Ravenna, accanto al suo banco ottico Linhof, piegato come una lente medievale. Il dialogo è franco, acuminato, ma attraversato da un rispetto sottile.


Michelangelo (con sguardo obliquo):

Dunque, Messer Ravenna… voi non create nulla, dite. Fotografate. Ma che pretesa è questa, d’essere chiamati artisti?

Marco Ravenna:

Nessuna pretesa, Maestro. Io fotografo l’opera degli altri. Ma non lo faccio alla leggera. Lavoro con rigore, come chi sa di essere responsabile di un’immagine destinata a durare nel tempo. Ogni scatto implica scelte: luce, lente, distanza, resa cromatica. E rispetto. Ho lavorato così per decine d’anni, in pellicola di grande formato, accanto a studiosi, restauratori, critici. Più di cento volumi, e collaborazioni con realtà come l’Enciclopedia Treccani.


Michelangelo (accigliandosi):

Collaborazioni… Anche a me il Papa chiedeva collaborazioni. Ma non capiva cosa gli stavo donando. Volevano il potere delle immagini, ma non la verità che portavano con sé. Volevano possedere l’arte, ma non ascoltarla.


Marco Ravenna (conferma):

Accade anche oggi. I committenti chiedono immagini, ma non sempre capiscono cosa comporta crearle. Non vedono l’attenzione, la fatica, la precisione necessaria. Molti non sanno che fotografare un’opera significa anche interpretarla tecnicamente, senza alterarla, senza tradirla. Altri fanno finta di non saperlo.


Michelangelo:

E pagano male, immagino?

Marco Ravenna:

Spesso con negligenza o presunzione. Ci sono litigi, pretese fuori misura, ignoranza delle condizioni tecniche e artistiche. E la legge — quella moderna — non ci protegge. La fotografia d’arte, in Italia, è quasi invisibile nella normativa. È un lavoro di frontiera, necessario ma poco riconosciuto.


Michelangelo (più comprensivo):

Allora siamo simili, voi ed io. Anch’io ho litigato con papi che volevano il Giudizio Universale ma non tolleravano il giudizio che conteneva. L’arte li spaventava, la luce li infastidiva.

Voi non scolpite la materia, è vero. Ma la vedete, la custodite. E la fate vedere agli altri.

Marco Ravenna (sorridendo):

Sì. Scolpisco la luce, Maestro. E provo, nel mio piccolo, a restituire alle opere quello che meritano: tempo, silenzio, attenzione. E dignità.


Michelangelo (con mezzo sorriso, mentre torna al blocco di marmo):

Forse vi prenderanno per pazzo, come fecero con me. Ma se la luce è la vostra pietra, allora andate avanti.

E ricordatevi: l’arte non si fa per chi comanda. Si fa per chi capisce.

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